Anni sessanta, un decennio che si apre con le Olimpiadi di Roma e si chiude con l’utopia della rivoluzione studentesca. Al suo interno prende vita la società dei consumi, la corsa allo spazio, l’industrializzazione spinta. Coloro che fino ad allora sono stati i punti di riferimento dell’architettura mondiale (Le Corbusier, Gropius, Mies Van Der Rohe) poco a poco scompaiono e chi rimane deve fare i conti con un mondo in vorticosa trasformazione e che chiede un punto di frattura con il passato. Il nuovo mondo, infatti, sembra non apprezzare il rigore funzionale del razionalismo con le sue tranquillizzanti e rettilinee sicurezze. Il mondo dell’arte, da Salvador Dalì a Marcel Duchamp, attraversa l’oceano per rendere omaggio al radicalismo pop della Factory di Andy Warhol. E sempre dagli Stati Uniti, cominciano ad arrivare in Europa i primi segnali di una nuova architettura, che giungerà a piena maturità negli anni ’70: il Postmoderno. Che significa riconsiderazione della funzione estetica, affermazione edonistica e ritorno all’ornamento. In Italia il Postmoderno, perlomeno negli anni sessanta, non significa rifiuto totale del Movimento Moderno, ma solo delle sue posizioni più rigide e propone una nuova metabolizzazione della memoria storica attraverso l’integrazione di elementi classici e moderni in nome di una “misurata monumentalità”. Osvaldo Borsani negli anni ’60 vede il suo progetto più ambizioso nato all’inizio degli anni ’50, Tecno, raggiungere la piena maturità. E il 31 maggio 1968 vedrà la sua neonata linea di arredi per ufficio Graphis accatastata nelle sale della Triennale occupata, nel giorno dell’inaugurazione, da parte di un gruppo di artisti che rivendica l’urgenza di una gestione democratica e diretta degli spazi d’arte e di cultura. E’ curioso che quei mobili, diventati involontarie icone del maggio milanese sessantottino, fossero essi stessi frutto di una visione rivoluzionaria. Attraverso Graphis infatti Osvaldo Borsani propone una nuova concezione “democratica” dell’ufficio. Dove le codificazioni dei differenti status gerarchici (che passavano in gran parte dalle scelte d’arredo) vengono abbattute nel nome della razionalità funzionale e accennate solo dai diversi colori dei piani delle scrivanie (bianco, nero, legno).